LGBTheater – Storie dal sipario arcobaleno #2: Tutti gli uomini del Bardo

C’è qualcuno che può dire di non aver amato Shakespeare in Love?

Qualcuno, qui alla redazione, lo conosciamo. 

Qualcuno che, quando è scoppiato lo scandalo Weinstein, pensava si riferisse al fratello Bob per aver diretto del ciarpame simile: un ammasso di cliché, personaggi poco interessanti, deus ex machina da telenovela spagnola.

Ma allora, perché ne parliamo? Shakespeare in Love racconta la nascita del Romeo e Giulietta: il buon William deve scrivere e dirigere la celebre tragedia, per la quale ha scelto un giovane attore che, sorpresa, è una ragazza travestita. Ricordiamo che al tempo era vietato alle donne salire sul palco. Per parlare della vita del Bardo il film coglie un espediente che lui usa nel Mercante di Venezia con Porzia: quello del personaggio travestito dal suo sesso opposto.

Ed ecco che il tarlo del dubbio comincia a scavare: ma Shakespeare, nel film, si innamora della sua attrice quando scopre che è donna o la scintilla è già scoccata prima? Sappiamo che il vero Shakespeare era sposato, ma numerosi suoi sonetti sono rivolti a una figura maschile, come il famoso Sonetto 18 (Shall I compare thee to a Summers day) che appare inoltre nel film.

Non tutti concordano che questo basti come indizio per un outing. È una concezione diffusa che, in epoca rinascimentale, si accettasse che un uomo etero elogiasse la bellezza di un altro uomo. Ma è bene ricordare che le opinioni di molti critici sono figlie di tempi in cui la bisessualità era ancora meno accettata di oggi.

Chi, invece, non ha mai fatto della propria omosessualità un segreto è Pietro Aretino. Lui stesso si definiva “un sodomita”, e nella commedia
Il Marescalco racconta di un ferratore di corte a cui è promessa in sposa una dama di cui lui non vuole proprio sapere, essendo “Ritroso con le donne come gli usurai con lo spendere” (Prologo). Inutili gli sforzi degli altri personaggi di convincerlo, prima fra tutti la balia che decanta le gioie della vita coniugale e che si sente rispondere: “Minor pena è il mal francioso (sifilide, NDA) (…) che non è lo avere moglie”. Tutto ciò ci ricorda l’uomo che si lamenta della moglie al bar, se non conosciamo la vita privata dell’Aretino. Togliendo infine il velo alla sposa, il marescalco realizza che altri non è che un paggio travestito: scopre la burla, se ne compiace e tira un sospiro di sollievo.

Se lo svelamento del travestimento, nel moderno Shakespeare in Love, evita al protagonista un amore gay, nell’opera di Pietro Aretino lo salva invece da una relazione etero. Un autore che ha precorso i tempi, e che lancia la seconda sfida ai partecipanti del Premio Carlo Annoni: in che modo il travestimento in teatro può parlare di una società dove travestirsi, in senso anche figurato, serve a salvarsi dal pregiudizio?

LGBTheater – Storie dal sipario arcobaleno #1: I greci erano più avanti di noi?

Non mentirò: negli anni del liceo, l’antica Grecia era il mio asso nella manica per vincere le discussioni con gli omofobi. Insomma, caro il mio Xx_Onore&patria86 che fai hating nei forum, come pensi di convincermi che “i gay hanno rovinato la società”, se una delle epoche più prosperose della storia era notoriamente queer friendly?

Tra le prove a mio favore c’era tuttavia un’assenza importante: il teatro. Nel teatro della Grecia classica sembrava non esserci spazio per eroi omosessuali o bisessuali, che invece sovrabbondavano nella poesia e nell’epica. Non che queste lacune interessassero il buon Xx_Onore&patria86, ma ci rimanevo un po’ così.

Il libro L’omosessualità nella Grecia antica (1979), di K.J. Dover, si dilunga infatti in esami approfonditi dei pochi frammenti rimasti della poesia antica, come quelli di Teognide per l’amato Cirno e di Anacreonte per Batillo, ma non accenna quasi all’arte drammatica. È un controsenso pensare che l’amore omosessuale fosse largamente accettato, ma che non venisse rappresentato in scena: del resto, i greci vedevano il teatro come uno strumento promotore dei valori della società, fondamentale per l’educazione del cittadino che aveva addirittura il dovere di assistervi. 

In realtà, tra i grandi tragediografi, quello che si è più avvicinato a parlare esplicitamente di omosessualità è Euripide. C’è un però: non l’ha fatto come autore, bensì come personaggio ne Le donne alle Tesmoforie di Aristofane, che era solito parodiare personalità note nelle sue opere. Le battute che il commediografo di Atene gli mette in bocca nel parlare del collega drammaturgo Agatone, alla nostra sensibilità di oggi, sembrano uscite da un articolo di Vittorio Feltri. 

Quindi la situazione si ribalta? Non solo il teatro greco non era pro LGBT+, ma addirittura omofobico?

Una recente pubblicazione del prestigioso Carleton College dice di no: le frecciate rivolte al povero Agatone non attaccano il suo orientamento, ma l’apparenza effeminata e la posizione di “passività”, sia sessuale, sia emotiva. Già questo basterebbe quindi a tacciare Aristofane forse di machismo, ma non di omofobia tout court: non dimentichiamo, tuttavia, che la commedia spesso non ha un eroe con cui si identificano i valori del pubblico. Euripide e l’ancor più “bigotto” servo vengono spesso ridicolizzati, a volte proprio per la loro ossessione per la mascolinità

Sembra insomma che tra il IV e il V secolo a.C. l’omosessualità fosse abbastanza accettata da scherzarci perfino su. Il primo autore di teatro LGBT+ della storia, da ciò che sappiamo oggi, scriveva commedie. La riflessione che lasciamo questa settimana ai partecipanti del premio è quindi: si può parlare di diritti, omofobia e discriminazione, anche attraverso una risata?