LA “DEVIANZA” RISPONDE CON UNA LETTERA INDIRIZZATA A MELONI (di Alberto Milazzo)

Post originale di Alberto Milazzo

Cara Giorgia Meloni,

mi giunge voce che lei abbia parlato di me, denigrandomi, facendo credere che io sia un errore, qualcosa di rotto che vada aggiustato. Vorrei spiegarle che è l’esatto opposto.

Mi presento: sono la Devianza.

Io esisto da sempre ed è grazie a me che anche lei esiste.

Provi ad arrivare in fondo a questa lettera e capirà.

All’inizio dei tempi, c’erano delle cose minuscole che voi oggi chiamate cellule. Le cellule si replicavano identiche a loro stesse. Per sopravvivere avevano immaginato che bastasse lasciare tutto com’era, figli identici ai genitori per così dire. Era una soluzione possibile e per un po’ funzionò, ma al primo cataclisma le cellule furono spazzate via, perché potevano sopravvivere solo a patto che il mondo intorno restasse immobile. Ma, mi creda, niente resta immobile (lo imparerà presto anche lei). Ed è qui che intervengo io. Le poche cellule “devianti”, quelle che al posto di replicarsi mischiarono i loro patrimoni genetici, sopravvissero. Da allora, qualunque cosa viva, lo deve a me, la Devianza dalla replicazione di un identico passato.

Lo disse benino un buffo omino inglese di nome Carlo, sono quelle “devianze” che a prima vista paiono errori a garantire la sopravvivenza delle specie. Si chiama capacità adattiva, si chiama intelligenza, si chiama in molti modi, ma alla fine sono sempre io che lavoro dietro le quinte, la Devianza.

Deviarono le prime scimmie per acquisire caratteri umanoidi, e deviarono i vostri antenati quando lasciarono l’Africa del sud dove abitavano da millenni per rischiare e conquistare il resto del mondo.

Ed è grazie a continue devianze, il letto di un fiume per irrigare, la corsa dei pesci per pescare che siete riusciti a prosperare.

Persino il pensiero è una devianza, l’ennesimo strumento adattivo oltre, non so, al pollice opponibile, che ho donato alla vostra specie e che la rende differente dagli animali, strumenti che vi servono per rimanere vivi.

Mi dicono che lei si professa cristiana. Sono contenta. Vede, la religione che lei professa in qualche modo l’ho inventata io. Se Cristo non mi avesse dato retta, non avesse deviato dalla tradizione dei padri, non avrebbe creato una religione tutta sua. Fu un perfetto deviante il caro Gesù. Ma, non si angusti, se anche lei si fosse professata ebrea non sarebbe cambiato granché: Abramo deviò a sua volta dalla tradizione che lo circondava, lasciò la sua casa e il suo paese per seguire una voce che continuamente gli diceva “devia”. E così Mosè quando lasciò l’opulento Egitto per il deserto. Tutto sommato, prima che diventino una raccolta di norme e tradizioni, le religioni nascono da un’idea deviante.

Lei dunque, signora Meloni, è geneticamente deviante, religiosamente, lei, è deviante. Né potrebbe essere diversamente. Perché lei è umana prima di essere qualunque altra cosa, e in quanto umana lei deve a me, la Devianza, la sua intera esistenza.

Mi dicono che lei si professa italiana.

Ah l’Italia, la patria della devianza (Le piace o la disturba l’idea che “patria” e “devianza” si fondano nella storia dell’Italia?) Cosa sarebbe l’Italia senza i suoi geni? Senza l’arte. Beh, non c’è artista degno di fama che non abbia frequentato le mie stanze. Deviarono tutti dalle varie tradizioni precedenti per creare qualcosa di nuovo e di sorprendente. Se fossero rimasti nel solco del passato, stareste ancora a imbrattare caverne (sebbene anche quel primo gesto fu potente e deviante a sua volta). Giotto deviò e introdusse i sentimenti nella pittura. Michelangelo deviò e introdusse il furore nell’arte. Caravaggio deviò e introdusse la luce e l’ombra nei suoi quadri. Potrei andare avanti all’infinito. L’arte italiana è certamente una storia della devianza. Ma devianza sono le scoperte scientifiche che costantemente mettono in discussione il già noto e lo reinventano. Devianza sono le idee di popolo e di nazione, un perenne ridefinirsi che nasce da inesauribili migrazioni di… devianti, di gente cioè che, rispondendo alla mia chiamata, lascia il noto per l’ignoto. L’America d’oggi è nata dal doloroso reimpasto di migranti europei con gli indigeni di quelle terre. E l’Europa a sua volta è nata dal rimescolio di popoli migranti da ogni dove. E non c’è confine nazionale che non sia arbitrario e deviante, perché scelto per interesse da gruppi di individui in un dato momento storico. La sua e mia amata Italia è una delle nazioni più devianti della storia perché più a lungo di altre ha rimescolato i propri confini e molto tardi e a fatica ha trovato un certo, precario senso di coesione nazionale.

E la lingua che lei parla? L’italiano? Forse, non ce n’è un’altra al mondo che sia più figlia della Devianza. Un genio, Dante, deviò dalla tradizione e reinventò il più volgare degli idiomi facendolo diventare da sera a mattino poesia, e delle più alte mai create.

Cos’ha, dunque, lei, signora Meloni, contro la Devianza, contro di me, contro il fondamento della storia, della genetica, dell’evoluzione, perfino della fede?

Tutto quello che lei ama o crede di difendere è figlio mio, prodotto della Devianza.

E sono figli miei quei ragazzi nelle scuole che lei vorrebbe correggere con qualche ora di ginnastica in più. Li ho già visti questi miseri trucchetti in passato. Io amo i miei figli, e siete tutti figli miei perché per quanto vi affanniate, è la follia, lo scarto, l’inciampo, il dubbio, l’errore che vi permettono di migliorare e in ultima analisi di essere umani. I ragazzi soprattutto sono una mia risorsa, perché sono più capaci di reinventre il mondo, metterlo in discussione, offrire idee di futuro e, io credo, è proprio per questo che chi ha paura di me, come lei signora Meloni, ha paura dei giovani e vuole metterli “in riga”.

L’ho vista ridere, qua e là, della mia lettera, credendola chissà semplicistica, faziosa? Sa come nasce il riso? Da una improvvisa “devianza” dal ritmo del quotidiano. Ogni sorriso è meravigliosamente deviante. Ecco, accolga il riso che è il cuore della mia opera nel mondo. Io sorrido sempre, di ogni maldestro tentativo di tenere immobile la vita.

Voglio svelarle un segreto: le piacciono i fiori? Anche i fiori, lo dico in un sussurro, non sono che foglie che hanno deviato e si sono specializzate per la moltiplicazione delle piante. Che ridere, eh?

Ci pensi la prossima volta che sorride, la prossima volta che le regalano un fiore. Uno dei mille che ho voluto, ognuno meravigliosamente deviante dall’altro, come tutto in questo universo, compresa lei.

La Devianza.

(Scusate, l’ho scritta perché non ho il telefono della signora, se no gliel’avrei cantata al cellulare. Alberto)

Intervista al vincitore-Fortunato Calvino

Il vincitore in lingua italiana ex aequo della terza edizione del Premio Carlo Annoni, nel 2020, è stato Fortunato Calvino, con il suo testo La resistenza negata. Esso verrà rappresentato nel Festival Lecite/Visioni di quest’anno, il 22 maggio 2021, presso il Teatro Filodrammatici di Milano e a cura del Premio Carlo Annoni: un segnale di ripartenza per il teatro, che sta attraversando un periodo sofferente.

Fortunato Calvino è filmmaker, regista, autore drammatico pluripremiato: ha vinto, tra gli altri, il Premio Giuseppe Fava nel 1995, il Premio Enrico Maria Salerno e il Premio Girulà nel 1996, il Premio Speciale Giancarlo Siani nel 1997, il Premio Teatri della Diversità nel 2001, il Premio Calcante nel 2002 e nel 2009, con i suoi testi Cravattari, Maddalena, Malacarne, Adelaide, Cuore Nero.

Le sue opere sono state rappresentate con successo in molti teatri nazionali e internazionali.

Secondo te che cosa non comprende ancora oggi il pubblico riguardo alla diversità e quindi perché è così importante dedicare un premio drammaturgico a questo tema? 

Il Premio Carlo Annoni colma un vuoto “drammaturgico” in un paese come il nostro pieno di contraddizioni e dove da alcuni anni si è tornato fortemente ad odiare il “diverso”. A tentare di metterlo ai margini della società.  Il tentativo credo sia fallito grazie alle Associazioni che lottano contro l’omofobia, grazie anche alla cultura, al cinema e al teatro, dove finalmente il cliché degli anni ’70 sparisce dando un’immagine più reale del mondo LGBTQI. E’ lunga la via, e crescente l’intolleranza che avvelena  ora il nostro paese (e non solo il nostro). Questo tema dipende soprattutto dalla politica (soprattutto quella di destra), che istiga ad odiare il diverso, facendo così aumentare l’intolleranza, e la violenza. In questo contesto un premio drammaturgico come  l’Annoni dà la possibilità a tanti autori di poter scrivere su un tema fino a qualche anno solo di nicchia. Oggi più di ieri esiste un pubblico trasversale che s’interessa  molto a queste tematica, un pubblico che fino a quando la pandemia non è scoppiata riempiva le sale dei teatri. Ora purtroppo vuote.

Ci puoi raccontare un piccolo aneddoto riguardo alla tua vittoria?

Arrivato a Milano ho trovato una città affollata, vivace. Ma quando sono tornato in albergo, che era nei pressi della Stazione Centrale, ho scoperto di essere l’unico ospite in quella struttura creandomi un certo disagio. E confesso che quella notte non sono riuscito per niente a dormire.   

Che cosa ha significato per te la vittoria del premio Carlo Annoni?

Un riconoscimento a una lunga militanza su questi temi dove ho scritto altri testi come: La Camera dei ricordi portato in scena proprio a Milano nel 1995. Un Premio teatrale come l’Annoni in un contesto come il Piccolo Teatro è una bella gratificazione per chi scrive e che si dedica da tempo a queste tematiche e non solo a queste. E anche un aiuto a trovare una produzione e probabilmente La Resistenza Negata in estate andrà in scena.    

Quali consigli potresti dare ai drammaturghi rispetto alla creazione di un testo?

Mi sono sempre posto un obiettivo, quello di toccare tematiche intoccabili, scomode, oppure temi che sono nella attuale società ancora un tabù: e questo mi ha portato a essere un autore che si è conquistato un suo personale spazio nel mondo della drammaturgia. Questo è il mio consiglio, quello di tenersi lontano dalle solite dinamiche, ma cercare di essere unici nelle tematiche che affronti.   

Cosa ti aspetti dal futuro, dopo la situazione mondiale che stiamo vivendo?

Mi aspetto che tutto questo termini e si torni a teatro… e questo accadrà, non subito certo. Questa Pandemia ci ha fatto capire come siamo fragili. Che dovremmo amare di più questa nostra terra; io in questo tempo non ho smesso di scrivere e credo che per i prossimi anni saranno tanti i testi teatrali che parleranno di questo terribile momento che tutto il mondo sta vivendo.

Intervista al vincitore-Joseph Aldous

Joseph Aldous ha vinto con il suo testo Get Happy come miglior autore in lingua inglese per il Premio Carlo Annoni nel 2020.

Joseph Aldous è uno scrittore e attore. Ha completato il Soho Writers’ Lab nel 2018-19, durante il quale ha scritto la sua prima drammaturgia, Get Happy. Ha anche fatto parte del Soho Writers’ Alumni Group nel 2019-20 e recentemente ha sviluppato una seconda drammaturgia commissionata dalla Oxford School of Drama.

Secondo te che cosa non comprende ancora oggi il pubblico riguardo alla diversità, e quindi perché è così importante dedicare un premio drammaturgico a questo tema?

Credo sia importante ribadire che la diversità non è qualcosa di “usa e getta”- una delle ragioni per cui la diversità e la sua continuativa rappresentanza sono così importanti è perché tante voci sono state e continuano a essere tagliate fuori dal dialogo, che stiamo toccando solo la superficie; ma penso che la gente si senta così a volte poiché in teatro e tv c’è stato un certo tipo di racconto e quindi ecco fatto, lavoro finito. Noi abbiamo bisogno di più storie, più protagonisti, più parole. È necessario che essa continui a crescere.

Ci puoi raccontare un piccolo aneddoto riguardo alla tua vittoria?

Quando l’ho scoperto ero nel ristorante dove lavoro. Ho visto un’email in cui mi rifiutavano per un’altra cosa e ho pensato “Perfetto, un’altra volta, avanti così”- e poi quindici minuti dopo ho ricevuto una mail dove mi si diceva che avevo vinto. Che capovolgimento! Poi il mio amorevole principale ha versato per noi del vino alla fine del turno e mi sono sbronzato il giusto.

Che cosa ha significato per te la vittoria del Premio Carlo Annoni?

È stata una cosa davvero meravigliosa. Più di tutto, mi ha dato confidenza e speranza che il mio lavoro può piacere alle persone e può dire loro qualcosa. È la prima drammaturgia che avevo scritto e tutti quelli del Premio Carlo Annoni mi hanno supportato moltissimo riguardo a esso, quindi è stato davvero speciale per uno scrittore come me, in erba.

Quali consigli potresti dare ai drammaturghi rispetto alla creazione di un testo?

Penso di non essere assolutamente la persona giusta nel dare consigli, a questo punto! Ma il consiglio che do a me stesso (a quasi tutte le ore) è di seguire il mio istinto e scrivere cosa sai di voler vedere. Gli altri aspetti si aggiusteranno da sé- ma lì è dove c’è la tua essenza.

(Penso.)

(Spero.)

Cosa ti aspetti dal futuro, dopo la situazione mondiale che stiamo vivendo?

Penso che non sarà facile per un po’ di tempo- mi sto preparando a questo. Ma spero che questo calderone porterà a qualche cambiamento necessario. Questa situazione ha reso chiara così tanta bruttezza radicata nella nostra società, che spero che quando andremo oltre il momento presente, lo ricorderemo e lavoreremo per un futuro più gentile e pieno d’amore. E che nessuno voterà mai più per il partito conservatore. Grazie!

Intervista alla vincitrice-Laura Fossa

La seconda edizione del Premio Carlo Annoni, nel 2019, ha visto come vincitrice in lingua italiana Laura Fossa, con il suo testo Shalom, il quale, come ci ha raccontato l’autrice stessa nell’intervista, tratta di Amore Universale.

Durante la sua carriera Laura Fossa ha seguito il corso di teatro condotto dall’attrice e regista Franca Fioravanti, dal 2014 al 2018 i corsi di teatro delle “Officine Teatrali Bianchini” e, dall’ottobre 2013 a oggi, le lezioni di scrittura drammaturgica “In aria sottile” tenuti dal drammaturgo Marco Romei.

Inoltre è stata tre volte vincitrice del Concorso Nazionale di Poesia “Luigi Cardiano” con la poesia La Maschera nel 2014, la poesia Psichedelia nel 2015, e il soggetto teatrale intitolato Il Giardino nel 2016.

Tra i suoi testi messi in scena, Il Giardino nel 2017 dalla Compagnia Teatrale “Officine Teatrali Bianchini” e diretto da Alberto Bergamini, e nel 2019 Shalom al Teatro dei Filodrammatici nel contesto del Festival “Lecite/Visioni”, promosso dallo stesso Premio Carlo Annoni.

Secondo te che cosa non comprende ancora oggi il pubblico riguardo alla diversità e quindi perché è così importante dedicare un premio drammaturgico a questo tema?

La diversità, in ogni sua forma e in ogni campo dell’esistenza, di primo impatto spaventa. Sempre. E la ragione è perché non si conosce. Poi quando ci si avvicina, si analizza e si vede che non c’è nessun pericolo si trasforma in quotidianità. È quindi importante dedicare un premio a questo tema proprio per farlo conoscere, per diffonderlo, per fare capire che la diversità, come è naturale che sia, esiste, ma che tutti siamo uguali di fronte all’Amore e che tutti abbiamo il diritto di viverlo in totale libertà senza nasconderci, senza rinunciare, senza negarlo, senza uccidere noi stessi.

Ci puoi raccontare un piccolo aneddoto riguardo alla tua vittoria?

Ho ricevuto la mail di Corrado che mi annunciava la vittoria quando mi trovavo ancora in ufficio. Sono corsa in sala riunioni dove sapevo che non avrei trovato nessuno, ho aperto la finestra e ho urlato di gioia. La gente che passava in strada ha tirato su la testa e i miei colleghi sono corsi a vedere se stavo bene. Avevo vinto il primo premio. Per me è stato come vincere un Oscar!

Che cosa ha significato per te la vittoria del Premio Carlo Annoni?

Per me vincere il Premio Carlo Annoni ha significato davvero tanto. Sono fiera di questa vittoria. La giuria era formata da nomi illustri della scena drammaturgica e letteraria, nazionale e internazionale, ed essere stata giudicata dagli esperti di settore la migliore tra tanti altri autori e testi di grande valore non poteva e non può che rendermi orgogliosa di aver vinto. Mi ha dato l’opportunità di poter far conoscere a più persone la storia di Shalom, una storia a cui tengo molto e che parla d’amore. Di Amore Universale.

Quali consigli potresti dare ai drammaturghi rispetto alla creazione di un testo?

Il primo consiglio che posso dare è che non serve solo sapere scrivere bene e voler raccontare storie ma bisogna apprendere la tecnica della scrittura drammaturgica attraverso tanti esercizi, leggendo testi teatrali di tutte le epoche, mettendoli a confronto e  analizzandoli a fondo. Conoscere i drammaturghi e sapere captare i loro segreti; come per esempio la teoria di Mamet, che attraverso tre leggi fa si che la storia si racconti da sola. Per quanto riguarda la parte creativa, che è quella che più mi piace, non ci sono regole fisse ma seguo quello che sento dentro: vedo i personaggi, l’ambiente in cui si muovono e le musiche che fanno da sfondo, e le dita scorrono sulla tastiera  descrivendo quella scena che io in quel preciso momento sto vivendo. Io sono sul palco e sono ognuno di loro. Posso sentire il loro cuore agitarsi, correre veloce, calmarsi, spegnersi anche. Percepisco i loro gesti ancora prima che li compiano. Sono loro che mi dettano la storia e io la seguo, semplicemente. Ho scritto di tanti personaggi e tutti diversi, con problemi e situazioni lontane da me anni luce e le ho vissute tutte senza perdermene neanche una. Shalom è nato in maniera naturale, fluida. Mentre lo componevo vedevo Shalom muoversi sul palco, agitarsi, gioire, ridere e soffrire, e tutto questo lo facevo insieme a lui. Non importa che la storia sia vera o inventata, per me Shalom, Jack e Jenny esisteranno sempre.

Che cosa ti aspetti dal futuro, dopo la situazione mondiale che stiamo vivendo?

Ho imparato a guardare non troppo in là nel futuro perché altrimenti si perde di vista il presente. Mi auguro che l’umanità abbia capito che noi uomini non siamo invincibili e che solo andando tutti nella stessa direzione si possono cambiare davvero le cose. Nello specifico per quanto riguarda il teatro mi auguro che presto si possa ritornare a raccontare storie e ad ascoltarle. Perché è anche di questo che l’anima si nutre.

Intervista al vincitore-Sergio Casesi

Il premio in lingua italiana dell’edizione 2018 del Premio Carlo Annoni è stato vinto da Sergio Casesi, autore teatrale e musicista milanese pluripremiato, con il suo testo Zeus in Texas.

Trombettista premiato a livello internazionale, dal 1999 Sergio Casesi ricopre il ruolo di Prima Tromba presso l’Orchestra Regionale Lombarda, I Pomeriggi Musicali di Milano.

Tra i numerosi premi vinti dall’autore figurano nel 2012 il primo premio nella competizione romana “Anime Nude” presso il Teatro dell’Orologio, con la messa in scena dell’atto unico Traditori, il “Premio per la nuova drammaturgia” del Teatro la Pergola di Firenze nel 2015, nel 2017 l’importante Premio Cendic con #AnAmericanDream.

Ha lavorato come tutor di drammaturgia per la Biennale di Venezia, per tre anni, nell’ambito di Biennale College.

Secondo te che cosa non comprende ancora oggi il pubblico riguardo alla diversità e quindi perché è così importante dedicare un premio drammaturgico a questo tema? 

Il tema della diversità è un tema centrale del nostro tempo. Diversità declinata in diversi modi e per diversi mondi che riguarda però sempre il rapporto fra individuo e società, fra individuo e masse. La cura della diversità nell’amore ed in generale nella sfera privata, la sessualità ma anche la politica, o la sfera ideale, spirituale e creativa, è forse la più urgente perché determinante per la vita quotidiana di milioni di persone. Vediamo spesso, in occidente, la legislazione inseguire la società e in paesi come Ungheria, Polonia o Russia un ritorno al dogma dell’odio e della violenza. Nel mondo ci sono poteri che giocano con la vita delle persone ed è compito di tutti i liberi, scrittori e artisti compresi, raccontare, denunciare e battersi per il diritto di vivere non omologati, non costretti, non schiacciati. La battaglia per i diritti civili è quindi una delle battaglie per la libertà dell’uomo e, al contrario di più antiche battaglie vinte ma poi perse per strada, speriamo possa contribuire al progresso dell’intera umanità in maniera duratura e certa. 

Per tutto questo è necessario il Premio Annoni come necessari sono i pensieri e le parole di tutti coloro che si battono e si sono battuti. Grazie al Premio Annoni, ormai appuntamento internazionale imprescindibile, sempre più persone vengono a contatto con i temi della diversità e sono costrette a fare i conti con se stesse, con le proprie abitudini, con le proprie paure, con le proprie verità. Giovani e famiglie, pubblico e artisti, opinione e politica. Credo fortemente nella creatività come elemento fondamentale per l’affermazione del diritto. 

Ci puoi raccontare un piccolo aneddoto riguardo alla tua vittoria? 

Un aneddoto… Ho scoperto che Carlo Annoni era originario di Agliate, un piccolo borgo in Brianza appoggiato sul Lambro. Paesino a cui sono legato perché la famiglia della mia compagna vive ancora lì e, coincidenze, vicino alla casa degli Annoni. Così, per caso, c’era una traccia nel mio vissuto con quello di Carlo, con al centro la meravigliosa chiesa romanica di Agliate. Con l’organizzazione del Premio ho organizzato quindi un concerto per Carlo Annoni proprio nella Basilica, con amici musicisti tutti legati in qualche modo a quel luogo straordinario. E’ stato un bel momento, ricco e raro. 

Che cosa ha significato per te la vittoria del premio Carlo Annoni? 

Il Premio Annoni per me ha significato moltissimo. Ho ricevuto la stima di grandi professionisti, di grandi artisti. Questo è importante quando si dà il massimo, quando si cerca di scrivere e di vivere allo stesso modo. 

Quali consigli potresti dare ai drammaturghi rispetto alla creazione di un testo? 

Ho avuto la fortuna di lavorare come tutor di drammaturgia alla biennale di Venezia per tre anni. E ho conosciuto tanti giovani di molte parti del mondo. Da molti ho imparato tanto. Ma vedo due mali molto diffusi nell’approccio alla scrittura che io, almeno spero, credo di aver sempre rifiutato. In primo luogo la paura del conflitto. Drammaturgia è conflitto. Non bisogna sottrarsi, anzi. E’ necessario indagarlo sempre e fondo, senza arrendersi alla paura. Capire quel conflitto immaginato cosa significa per noi e perché. In secondo luogo, ma forse è ancora peggio, ho notato la tendenza di molti a rifarsi a modelli preesistenti, anche fondamentali. Ma occorre chiarire. Mai scrivere alla Tizio o alla Caio. Mai e poi mai voler scrivere il testo di qualcun altro. Se avremo fortuna saremo originali altrimenti i modelli interiorizzati si vedranno comunque in filigrana. Ma io vedo spesso un appiattimento davvero scabroso. umiliante direi. Per scrivere bisogna usare il proprio sangue, il proprio sorriso e il proprio dolore. Le proprie esperienze e i propri sogni. Bisogna vincere la paura di vivere. Occorre mettersi in gioco sapendo di poter fallire. Parlando con sceneggiatori o autori, ma anche compositori di musica, mi trovo a dover discutere di scelte basate su altre opere, su altri scritti, su idee di altri. No, questo è sbagliato. Anche eticamente. E’ volgare e sterile. Potremo fallire, sbagliare, non riuscire. Ma saremo noi. E forse, con fiducia e forza, potremo invece scrivere qualcosa di valore, a patto di usare ciò che siamo e ciò che abbiamo nelle vene. E non suggestioni altre e infatuazioni letterarie. 

Cosa ti aspetti dal futuro, dopo la situazione mondiale che stiamo vivendo?

Non so cosa aspettarmi dal futuro. Mi sembra che del teatro, come della musica e del sapere artistico in generale, importi poco. Siamo in un periodo della società della tecnica in cui l’economia è l’orizzonte morale a cui ogni uomo deve tendere. Sembra che il teatro, che da millenni è il luogo della riflessione laica e civile, non abbia più un autentico ruolo. E se è vero che il narcisismo di molti autori e artisti è colpevole, in questa fase non mi sento di dare la colpa a noi lavoratori dello spettacolo. Alla società, e in particolar modo alla politica e ai media, anche per problemi sempre più grandi in un contesto appunto solo economicistico, sembra non interessare il futuro della cultura e nemmeno il futuro degli attori, degli scenografi, dei registi e delle maestranze e dei musicisti. Mi sento esiliato dal perimetro di ciò che è importante, di ciò che è vitale. Mentre ho sempre scritto, e suonato il mio strumento in orchestra, credendo di fare qualcosa di importante per tutti, di indispensabile. Non so se sbaglio ora o sbagliavo prima. Ma non so cosa accadrà in futuro. Non ho elementi per capire se siamo in una fase che si risolverà o se il destino degli artisti è segnato, almeno per molti anni. Il teatro non è intrattenimento, che pure è importante e manca ed è lavoro per moltissimi professionisti. Ma il teatro è manifestazione della coscienza collettiva, è momento condiviso e libero. E non voglio immaginare una società in cui la tecnica può disporre della vita di tutti senza un luogo in cui questa stessa vita può essere messa in scena per cercarne il senso, se mai ve ne fosse uno, e comunque il suo continuo ricomporsi nel tempo.  

Intervista al vincitore-Mark Erson

Mark Erson ha vinto la prima edizione del Premio Carlo Annoni come autore del miglior testo in inglese, Marc in Venice, nel 2018. Qui di seguito una sua intervista.

Secondo te che cosa non comprende ancora oggi il pubblico riguardo alla diversità, e quindi perché è così importante dedicare un premio drammaturgico a questo tema?

Nonostante ci siano diversi concorsi drammaturgici a cui partecipare, non sempre si sa come verranno recepiti copioni/storie sul tema dell’omosessualità. Ci sono molti teatri negli Stati Uniti che devono preoccuparsi di come i loro finanziatori considererebbero storie del genere. Un’altra sfida del fare teatro in un sistema iper-capitalistico. Concorsi come questo danno voce a chi solitamente non ha un posto nel teatro e non vi viene celebrato. Ciò assicura lo sviluppo di nuove storie e nuove voci.

L’anno successivo alla mia vittoria, ho scritto un copione su Leonardo da Vinci che non avrei mai scritto se non fossi stato incoraggiato dagli organizzatori del Premio. Facendolo, ho potuto conoscere la figura di Leonardo da Vinci e quale esempio rappresenti per la comunità LGBTQ. Recentemente, alcune pubblicità televisive statunitensi lo hanno rappresentato in modo poco veritiero. Un Premio come questo può inoltre aiutare la nostra comunità a reclamare e raccontare una storia che altrimenti viene nascosta e addirittura distorta.

Ci puoi raccontare un piccolo aneddoto riguardo alla tua vittoria?

Ho potuto raggiungere Milano per ricevere il mio premio e partecipare alla premiazione. Un punto davvero alto della mia vita. Poiché avevo scritto una storia che elevava la trama di un coming out al vivere in armonia e all’equivalente di un racconto spirituale, e poiché sono un pastore apertamente omosessuale in una parrocchia aperta alle persone LGBTQ, si è parlato più di me come pastore che di me come drammaturgo. Ma non è importante. Il mio dramma, Marc in Venice, è nato sicuramente dal mio personale viaggio spirituale e dal venire a patti con la mia propria identità.

Che cosa ha significato per te la vittoria del Premio Carlo Annoni?

È stata una incredibile conferma e validazione. Ho scritto un buon numero di drammi. La maggior parte sono stati auto-prodotti. Vincere mi ha mostrato come altri dessero valore a ciò che scrivevo. Da quando ho vinto sono stato più prolifico e sto scrivendo con un senso di confidenza maggiore.

Quali consigli potresti dare ai drammaturghi rispetto alla creazione di un testo?

Osserva la tua stessa vita per delle idee. Non dico di scrivere copioni autobiografici, ma di intravedere temi e passioni che hanno alimentato il tuo viaggio. Scrivi quello che conosci nel profondo. E gioca al “Cosa succederebbe se”. Prendi un evento o una idea di trama e inizia a chiederti: cosa succederebbe se accadesse questo o quest’altro.

Cosa ti aspetti dal futuro, dopo la situazione mondiale che stiamo vivendo?

Voglio credere che, come il rinascimento che avvenne dopo l’epidemia del quattordicesimo secolo, usciremo da tutto questo con nuova comprensione di ciò che è importante, di ciò che ci nutre, di cosa è essenziale per il nostro benessere. Il regalo del 2020 possa essere un rifocalizzarsi (gioco di parole) e speriamo di uscirne con una migliore comprensione di ciò che ha valore. Ovviamente, secondo me, le arti sono il cuore di questa rinascita.

Siete curiosi di saperne di più sulle edizioni passate del Premio Drammaturgico Internazionale Carlo Annoni?

La prima edizione del premio si è tenuta nel 2018. I testi pervenuti alla giuria sono stati 122: 100 in lingua italiana, 22 in lingua inglese. La serata di premiazione, presentata da Corrado Radovan Spanger, fondatore del Premio, si è svolta a Palazzo Reale, dove hanno presenziato il vincitore in lingua italiana, Sergio Casesi, col suo testo Zeus in Texas, il vincitore in lingua inglese, Mark Erson, con il suo Marc in Venice, nonché gli autori delle menzioni speciali Ana Fernandez Valbuena (Gazali per l’emiro), Lisa Capaccioli (Le probabilità dell’asterisco (*)), Gianni Clementi (Gino, lunedì riposo). Oltre che dal numeroso pubblico, la premiazione è stata arricchita dalla lettura di alcuni brani di Zeus in Texas a opera di Ferdinando Bruni.

Nel 2019 invece vi è stata la seconda edizione del Premio. I testi pervenuti sono stati 689, di cui 540 in lingua inglese e 149 in lingua italiana, un numero quasi sei volte maggiore rispetto a quello del 2018. La premiazione si è svolta presso la sala delle conferenze stampa del Piccolo Teatro di Milano, in via Rovello, ed è stata caratterizzata da interventi riguardanti il teatro e i diritti civili, due tematiche che costituiscono l’anima e l’impegno del Premio Carlo Annoni. Oltre ad alcune proiezioni video di tema teatrale, sono infatti intervenute personalità importanti, rappresentanti del contesto teatrale milanese e dell’attenzione rivolta all’argomento sui diritti civili: Yuri Guaiana (Associazione Radicale Certi Diritti), Marina Gualandi (Teatro Filodrammatici di Milano), Giovanni Soresi (Piccolo Teatro). I vincitori dell’edizione 2019 sono stati Laura Fossa, con il suo testo Shalom, Bixby Elliot con il testo in lingua inglese Lincoln was faggot, infine le menzioni speciali conferite a Fortunato Calvino (Pelle di seta), Federica Cucco (Orlando), Mark Erson (The unfinished genius), Joe Gulla (Sleeping with the fish).

La terza edizione del premio Carlo Annoni si è svolta nel 2020. Nonostante la situazione mondiale così difficile, i testi hanno visto un ulteriore aumento: ne sono arrivati 759, 70 in più rispetto al 2019, di cui 601 in lingua inglese e 158 in lingua italiana. La premiazione, presentata, come quelle precedenti, da Corrado Radovan Spanger, si è tenuta al Piccolo Teatro Grassi di Milano, come l’anno precedente, ma nel chiostro Nina Vinchi. A confermare l’impegno del Premio sull’argomento, diversi sono stati gli interventi riguardanti i diritti civili, tra cui quelli di Yuri Guaiana, Daniele Nahum (Parlamento Europeo), Pietro Vito Spina (Milano Pride), nonché il fatto che fossero presenti l’assessore alle politiche sociali e ai diritti civili Gabriele Rabaiotti e la presidente della commissione pari opportunità De Marchi Diana Alessandra del comune di Milano. Presenti anche Giovanni Soresi, Mario Cervio Gualersi (Festival Lecite/Visioni) e Andrea Ferrari (Festival Mix).

Ad arricchire il momento, vi sono state le letture teatrali di Ferdinando Bruni, Renato Sarti, Fabrizio Caleffi e Dorothy Barresi dei testi vincitori: La resistenza negata di Fortunato Calvino, Pochos di Benedetto Sicca, Calascibetta44 di Antonio Lovascio (Menzione speciale), Aspettando Manon di Alberto Milazzo York (Menzione speciale), La peste di Sergio Casesi (Menzione speciale corti). Il testo vincitore in lingua inglese è stato Get happy di Joseph Aldous, le menzioni speciali per i testi inglesi sono state conferite a Gus Gowland e Melissa Li (Menzioni speciali musical).

Per ulteriori informazioni, visita la sezione del sito dedicata ai vincitori del Premio Carlo Annoni.

LGBTheater – Storie dal sipario arcobaleno #9: We can be Genet (just for one day)

Sono pochi gli autori che possono vantare, nella propria bacheca, un Pulitzer, un Pinter Prize, un Oscar o un Nobel. Ma quanti di loro possono dire di essere stati citati da nientemeno che David Bowie in una sua canzone? È il 1972 quando il fu Ziggy Stardust rilascia Jean Genie, singolo che anticipa l’uscita della pietra miliare del brit pop Aladdin Sane: il titolo è chiaramente ispirato a Jean Genet, drammaturgo e romanziere francese che, quell’anno, aveva messo in pausa il teatro per girare il Medio Oriente come giornalista, intervistando addirittura Yasser Arafat in Giordania.

Spirito ribelle di quegli anni, impossibile da comprimere in una definizione che non sia quella di genio che le definizioni le trascende: è una descrizione che si adatta al maestro delle parole parigino quanto al Duca Bianco. Bowie quel soprannome se lo era guadagnato con la sua scalata sull’Olimpo della black music, con il suo rock targato Brixton, ma infuso dell’energia di Ray Charles, James Brown, Stevie Wonder. E mentre la RCA cercava di accaparrarsi l’esclusiva sul nuovo pezzo del Duca, Genet si trovava a pochi chilometri dalla sede di New York, invitato negli States dai Black Panther come testimone dalla penna affilata delle lotte di quegli anni.

Jean Genet.

Come Koltès, anche Genet si schierava dalla parte degli ultimi, senza ritenersi tale nonostante le oppressioni subite per la sua sessualità. Nell’opera Lès Nègres, il francese percorre al contrario il trasformismo di Bowie, chiedendo che gli attori neri si dipingessero il volto di bianco e che almeno uno tra gli spettatori accettasse di fare lo stesso se il pubblico fosse stato di soli neri. Il travestimento è l’elisir del teatro di Genet: ne Le serve, egli chiede che le due protagoniste siano interpretate da giovani uomini travestiti. 

Complice una vita travagliata, tra le origini più che umili, l’arresto per omosessualità e la dipartita precoce del suo amato, Genet sviluppa un palato finissimo per l’amarezza del mondo. La crudeltà si cela ovunque, nei giochi di potere dell’individuo e della società e l’unico modo per rappresentarla a teatro è con la finzione che esso offre: teatro nel teatro, in cui il travestimento assurge a strumento per agire la disparità e il sadismo che produce. L’omosessualità stessa gioca un ruolo preponderante, diventando spesso la maschera degli stessi rapporti di dominazione che l’autore denunciava.

Se pensiamo ai vestiti di piume e brillantini di Bowie, prima del primo coming out come etero che la storia ricordi, ci sembra che le immagini dei due artisti si sovrappongano. Destini intrecciati in una perenne fuga da identità sociali, sessuali, demografiche, che culminano con l’epilogo che accomuna l’umanità: il Duca a 69 anni, Genet a 75, ma mantenendo la stessa vena di incendiario (dalla parte dei buoni) della sua gioventù. Ed ecco quindi la nona sfida per i partecipanti del Premio Carlo Annoni: provate a immaginare il vostro testo come se fosse musica. Come vorreste che suonasse?

LGBTheater – Storie dal sipario arcobaleno #8: Ode ai Maestri

Oggi vogliamo parlarvi di un grande autore, noto al pubblico per la sua personalità eccentrica, uno spiccato gusto per la comicità controversa e, soprattutto, un inconfondibile ciuffo voluminoso biondo rossiccio che è diventato l’icona del suo stile. No, non preoccupatevi: non è mai stato Presidente degli Stati Uniti d’America. Stiamo parlando di Alan Bennett, drammaturgo, attore e sceneggiatore inglese.

Classe 1934, è del 1960 la sua prima opera di successo: Beyond the Fringe, una serie di sketch di teatro leggero dai toni parodistici che a chi ha qualche capello grigio, ricorda il genere della rivista. È qui che il commediografo inglese inizia a farsi la fama di mina vagante, caricaturando le autorità del tempo sul palco e demolendole a suon di risate. 

L’inizio dell’ascesa di un autore che dimostrerà più volte di non temere di essere frainteso o di risultare offensivo: se ne avrà la prova in The History Boys, scritto ben mezzo secolo dopo Beyond the Fringe, nel 2004. Il ciuffo biondo si è sbiancato, ma lo smalto rimane: l’opera gode di un successo internazionale, sbarcando in Italia e diventando uno dei classici dell’Elfo Puccini, grazie alla regia della coppia Bruni/De Capitani.

Alan Bennett.

Otto studenti, candidati all’ammissione nei più prestigiosi atenei del Regno Unito, si confrontano con un preside che ritiene la loro accettazione nelle migliori università il maggiore attestato di prestigio per la sua scuola. Pertanto, deciso a non lasciarsi sfuggire l’occasione, assume un nuovo insegnante che prepari i ragazzi per i test: Irwin, che come il più anziano collega Hector si scoprirà essere omosessuale e provare attrazione verso i suoi studenti.

In una trama minimalista, che gioca più con la spensieratezza che con la provocazione, emerge uno dei topos della letteratura omosessuale: la figura del precettore. Un fil rouge che va dai componimenti omoerotici per gli efebi della Grecia Antica fino alle tesi di Mario Mieli, ingiustamente accusato di pedofilia quando elogiava il fanciullo come creatura libera, ancora non sottoposta alle pressioni di una società che inculca l’eterosessualità con la forza. Hector si oppone all’educazione dogmatica che permette di incrementare i punteggi nelle graduatorie universitarie, spingendo i ragazzi ad aprire la propria mente invece che rincorrere trofei inutili.

Tutto questo ci fa riflettere su un’epoca in cui a fare le spese di pandemia e crisi economica ci sono stati anche l’educazione e i diritti civili. Scuole chiuse, cultura ostracizzata e ulteriore carica alla smania di guadagno vengono promossi come motore per uscire dal fango in cui riversa la società. Ecco quindi l’ottava sfida per i partecipanti al Premio Carlo Annoni: quando i vostri personaggi affondano nei loro problemi, chi è che li aiuta a riemergere?

LGBTheater – Storie dal sipario arcobaleno #7: Ulisse in Italia

Come a Ulisse ci sono voluti vent’anni per tornare a Itaca, a noi sono serviti sette episodi per tornare in Italia. Non perché sia passato più tempo che altrove per veder svettare il tricolore accanto alla bandiera arcobaleno, ma perché eravamo indecisi su chi fosse stato il primo a issarlo in maniera convincente.

Con un’indispensabile menzione a Pier Paolo Pasolini e Mario Mieli, abbiamo deciso di parlare di uno degli autori italiani più controversi dello scorso secolo: Giovanni Testori.

Giovanni Testori (foto di Valerio Soffientini)

Testori nasce, come Sarah Kane, in una famiglia profondamente religiosa, che lo instrada verso il fascismo. Negli anni della guerra collabora con i Gruppi Universitari Fascisti e si appassiona di storia dell’arte, iniziando a dipingere. La sua vera identità di omosessuale incastrato in un mondo repressivo viene fuori dall’amicizia col regista Luchino Visconti, gay anche lui.

Sono gli anni in cui Testori narra i sobborghi di Milano, scrivendo i racconti che poi entreranno nella raccolta Il ponte della Ghisolfa. L’Arialda, ambientato nella periferia meneghina, è il primo caso in Italia di un’opera con una relazione omosessuale frutto dell’amore e non della perversione, associata alla comunità LGBT+ dalla mentalità (demo)cristiana dominante. Tanto bastò per portare in tribunale lui e il regista milanese, che ne aveva curato la versione cinematografica.

Il genio è come una pompa da giardino: più si prova a otturare il flusso, più forte spingerà l’acqua per uscire, trovando sempre uno spiraglio. È il caso di un secondo sodalizio, quello con Franco Parenti e Andrée Ruth Shammah: la seconda è direttrice artistica del teatro oggi intitolato al primo. Lì Testori portò in scena la Trilogia degli Scarrozzanti, a cominciare dalla riscrittura Ambleto. In un finto creolo franco-lombardo seicentesco, l’autore stravolge la trama del bardo, inserendo anche qui relazioni omosessuali, ma stavolta in chiave surreale e tragicomica à la Copi.

Dopo il fascismo, la malavita milanese e l’omosessualità, Testori ritorna infine alle origini: la Chiesa cattolica, alla quale viene avvicinato da Comunione e Liberazione. Sono gli anni della depressione dopo la morte della madre, in cui il drammaturgo narra il bisogno di conforto, che ora sente universale. nelle sue ultime opere: drammi religiosi, non diversi da quelli di Jacopone da Todi, ma permeati del suo gioco in cui il confine tra teatro e realtà sfuma progressivamente.

Testori muore nel 1993. Come Ulisse, che prima di rivedere Itaca passò per maghe e sirene, l’aedo del ‘900 circumnavigò ogni ambito del pensiero e dell’espressione umana, sospeso tra le due forze opposte della libertà sessuale e individuale e del senso di colpa cattolico. Giungiamo così alla settima sfida per i partecipanti del Premio Carlo Annoni: quand’è che, per un autore, è tempo di sperimentare nel suo teatro?