LGBTheater – Storie dal sipario arcobaleno #9: We can be Genet (just for one day)

Sono pochi gli autori che possono vantare, nella propria bacheca, un Pulitzer, un Pinter Prize, un Oscar o un Nobel. Ma quanti di loro possono dire di essere stati citati da nientemeno che David Bowie in una sua canzone? È il 1972 quando il fu Ziggy Stardust rilascia Jean Genie, singolo che anticipa l’uscita della pietra miliare del brit pop Aladdin Sane: il titolo è chiaramente ispirato a Jean Genet, drammaturgo e romanziere francese che, quell’anno, aveva messo in pausa il teatro per girare il Medio Oriente come giornalista, intervistando addirittura Yasser Arafat in Giordania.

Spirito ribelle di quegli anni, impossibile da comprimere in una definizione che non sia quella di genio che le definizioni le trascende: è una descrizione che si adatta al maestro delle parole parigino quanto al Duca Bianco. Bowie quel soprannome se lo era guadagnato con la sua scalata sull’Olimpo della black music, con il suo rock targato Brixton, ma infuso dell’energia di Ray Charles, James Brown, Stevie Wonder. E mentre la RCA cercava di accaparrarsi l’esclusiva sul nuovo pezzo del Duca, Genet si trovava a pochi chilometri dalla sede di New York, invitato negli States dai Black Panther come testimone dalla penna affilata delle lotte di quegli anni.

Jean Genet.

Come Koltès, anche Genet si schierava dalla parte degli ultimi, senza ritenersi tale nonostante le oppressioni subite per la sua sessualità. Nell’opera Lès Nègres, il francese percorre al contrario il trasformismo di Bowie, chiedendo che gli attori neri si dipingessero il volto di bianco e che almeno uno tra gli spettatori accettasse di fare lo stesso se il pubblico fosse stato di soli neri. Il travestimento è l’elisir del teatro di Genet: ne Le serve, egli chiede che le due protagoniste siano interpretate da giovani uomini travestiti. 

Complice una vita travagliata, tra le origini più che umili, l’arresto per omosessualità e la dipartita precoce del suo amato, Genet sviluppa un palato finissimo per l’amarezza del mondo. La crudeltà si cela ovunque, nei giochi di potere dell’individuo e della società e l’unico modo per rappresentarla a teatro è con la finzione che esso offre: teatro nel teatro, in cui il travestimento assurge a strumento per agire la disparità e il sadismo che produce. L’omosessualità stessa gioca un ruolo preponderante, diventando spesso la maschera degli stessi rapporti di dominazione che l’autore denunciava.

Se pensiamo ai vestiti di piume e brillantini di Bowie, prima del primo coming out come etero che la storia ricordi, ci sembra che le immagini dei due artisti si sovrappongano. Destini intrecciati in una perenne fuga da identità sociali, sessuali, demografiche, che culminano con l’epilogo che accomuna l’umanità: il Duca a 69 anni, Genet a 75, ma mantenendo la stessa vena di incendiario (dalla parte dei buoni) della sua gioventù. Ed ecco quindi la nona sfida per i partecipanti del Premio Carlo Annoni: provate a immaginare il vostro testo come se fosse musica. Come vorreste che suonasse?

LGBTheater – Storie dal sipario arcobaleno #8: Ode ai Maestri

Oggi vogliamo parlarvi di un grande autore, noto al pubblico per la sua personalità eccentrica, uno spiccato gusto per la comicità controversa e, soprattutto, un inconfondibile ciuffo voluminoso biondo rossiccio che è diventato l’icona del suo stile. No, non preoccupatevi: non è mai stato Presidente degli Stati Uniti d’America. Stiamo parlando di Alan Bennett, drammaturgo, attore e sceneggiatore inglese.

Classe 1934, è del 1960 la sua prima opera di successo: Beyond the Fringe, una serie di sketch di teatro leggero dai toni parodistici che a chi ha qualche capello grigio, ricorda il genere della rivista. È qui che il commediografo inglese inizia a farsi la fama di mina vagante, caricaturando le autorità del tempo sul palco e demolendole a suon di risate. 

L’inizio dell’ascesa di un autore che dimostrerà più volte di non temere di essere frainteso o di risultare offensivo: se ne avrà la prova in The History Boys, scritto ben mezzo secolo dopo Beyond the Fringe, nel 2004. Il ciuffo biondo si è sbiancato, ma lo smalto rimane: l’opera gode di un successo internazionale, sbarcando in Italia e diventando uno dei classici dell’Elfo Puccini, grazie alla regia della coppia Bruni/De Capitani.

Alan Bennett.

Otto studenti, candidati all’ammissione nei più prestigiosi atenei del Regno Unito, si confrontano con un preside che ritiene la loro accettazione nelle migliori università il maggiore attestato di prestigio per la sua scuola. Pertanto, deciso a non lasciarsi sfuggire l’occasione, assume un nuovo insegnante che prepari i ragazzi per i test: Irwin, che come il più anziano collega Hector si scoprirà essere omosessuale e provare attrazione verso i suoi studenti.

In una trama minimalista, che gioca più con la spensieratezza che con la provocazione, emerge uno dei topos della letteratura omosessuale: la figura del precettore. Un fil rouge che va dai componimenti omoerotici per gli efebi della Grecia Antica fino alle tesi di Mario Mieli, ingiustamente accusato di pedofilia quando elogiava il fanciullo come creatura libera, ancora non sottoposta alle pressioni di una società che inculca l’eterosessualità con la forza. Hector si oppone all’educazione dogmatica che permette di incrementare i punteggi nelle graduatorie universitarie, spingendo i ragazzi ad aprire la propria mente invece che rincorrere trofei inutili.

Tutto questo ci fa riflettere su un’epoca in cui a fare le spese di pandemia e crisi economica ci sono stati anche l’educazione e i diritti civili. Scuole chiuse, cultura ostracizzata e ulteriore carica alla smania di guadagno vengono promossi come motore per uscire dal fango in cui riversa la società. Ecco quindi l’ottava sfida per i partecipanti al Premio Carlo Annoni: quando i vostri personaggi affondano nei loro problemi, chi è che li aiuta a riemergere?

LGBTheater – Storie dal sipario arcobaleno #7: Ulisse in Italia

Come a Ulisse ci sono voluti vent’anni per tornare a Itaca, a noi sono serviti sette episodi per tornare in Italia. Non perché sia passato più tempo che altrove per veder svettare il tricolore accanto alla bandiera arcobaleno, ma perché eravamo indecisi su chi fosse stato il primo a issarlo in maniera convincente.

Con un’indispensabile menzione a Pier Paolo Pasolini e Mario Mieli, abbiamo deciso di parlare di uno degli autori italiani più controversi dello scorso secolo: Giovanni Testori.

Giovanni Testori (foto di Valerio Soffientini)

Testori nasce, come Sarah Kane, in una famiglia profondamente religiosa, che lo instrada verso il fascismo. Negli anni della guerra collabora con i Gruppi Universitari Fascisti e si appassiona di storia dell’arte, iniziando a dipingere. La sua vera identità di omosessuale incastrato in un mondo repressivo viene fuori dall’amicizia col regista Luchino Visconti, gay anche lui.

Sono gli anni in cui Testori narra i sobborghi di Milano, scrivendo i racconti che poi entreranno nella raccolta Il ponte della Ghisolfa. L’Arialda, ambientato nella periferia meneghina, è il primo caso in Italia di un’opera con una relazione omosessuale frutto dell’amore e non della perversione, associata alla comunità LGBT+ dalla mentalità (demo)cristiana dominante. Tanto bastò per portare in tribunale lui e il regista milanese, che ne aveva curato la versione cinematografica.

Il genio è come una pompa da giardino: più si prova a otturare il flusso, più forte spingerà l’acqua per uscire, trovando sempre uno spiraglio. È il caso di un secondo sodalizio, quello con Franco Parenti e Andrée Ruth Shammah: la seconda è direttrice artistica del teatro oggi intitolato al primo. Lì Testori portò in scena la Trilogia degli Scarrozzanti, a cominciare dalla riscrittura Ambleto. In un finto creolo franco-lombardo seicentesco, l’autore stravolge la trama del bardo, inserendo anche qui relazioni omosessuali, ma stavolta in chiave surreale e tragicomica à la Copi.

Dopo il fascismo, la malavita milanese e l’omosessualità, Testori ritorna infine alle origini: la Chiesa cattolica, alla quale viene avvicinato da Comunione e Liberazione. Sono gli anni della depressione dopo la morte della madre, in cui il drammaturgo narra il bisogno di conforto, che ora sente universale. nelle sue ultime opere: drammi religiosi, non diversi da quelli di Jacopone da Todi, ma permeati del suo gioco in cui il confine tra teatro e realtà sfuma progressivamente.

Testori muore nel 1993. Come Ulisse, che prima di rivedere Itaca passò per maghe e sirene, l’aedo del ‘900 circumnavigò ogni ambito del pensiero e dell’espressione umana, sospeso tra le due forze opposte della libertà sessuale e individuale e del senso di colpa cattolico. Giungiamo così alla settima sfida per i partecipanti del Premio Carlo Annoni: quand’è che, per un autore, è tempo di sperimentare nel suo teatro?